Wednesday, July 28, 2010
Bikini e fascino latino, bellezze in passerella a Medellin
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Un mix di tre anticorpi contro l’Aids Funziona sul 91% dei ceppi di Hiv
Sono stati isolati nel sangue di un malato, ma sono presenti nel sangue di molte persone che hanno contratto il virus. La scoperta, pubblicata su Scienze, potrebbe aprire la strada a nuovi farmaci per la cura della malattia
di Sara FicocelliSono stati identificati tre nuovi anticorpi che riescono a neutralizzare fino al 91% dei ceppi di Hiv: la scoperta, pubblicata questa settimana su Science da un gruppo di ricerca guidato da Xueling Wu dell'Istituto Nazionale della Sanità (Nih) degli Stati Uniti, potrebbe, secondo gli autori, aiutare a sviluppare efficaci vaccini contro il virus, nonché nuove cure per combattere l'Aids.
I tre anticorpi, chiamati VRC01, VRC02, VRC03, non hanno tutti la stessa efficacia: solo i primi due riescono a contrastare il 91% dei ceppi di Hiv-1, mentre il terzo ne contrasta il 57%. Tutti e tre sono stati isolati nel sangue di una persona infettata dal virus ma secondo i ricercatori sono presenti in quello di molti altri pazienti. Il segreto dell'efficacia dei due anticorpi più potenti, VRC01 e VRC02, è in un nuovo dispositivo molecolare usato da queste due proteine.
Analizzando la struttura dell'anticorpo VRC01 mentre era legata al virus, un altro gruppo di ricerca coordinato da Tongqing Zhou sempre del Nih ha anche scoperto che l'anticorpo riesce a neutralizzare il 91% dei ceppi di Hiv perché attacca un’area del virus comune a tutti questi ceppi.
"Queste scoperte rappresentano importanti passi in avanti per la ricerca e ci aiuteranno ad accelerare gli studi per prevenire l'Hiv su scala globale" ha osservato Anthony Fauci, direttore dell'Istituto di allergie e malattie infettive del Nih. "Inoltre - ha aggiunto - la tecnica usata dai ricercatori per identificare questi nuovi anticorpi costituisce una nuova strategia che potrebbe essere applicata per la progettazione di vaccini per molte altre malattie infettive".
“Si tratta di una scoperta importante – spiega il professor Fernando Aiuti, docente di Medicina interna e professore emerito della Sapienza Università di Roma – perché sono stati identificati tre nuovi anticorpi: questo studio è la conseguenza di una ricerca sul virus dell’Hiv che va avanti da 15 anni. Ma da qui a parlare di vaccino la strada è lunga”.
Aiuti spiega che un conto è parlare di blocco neutrale e un altro è parlare di guarigione. Il fatto che il virus possa essere bloccato in vitro non significa che poi si riesca a trovare un vaccino. “E poi, anche se fosse – continua – ci vorrebbe 1 anno per prepararlo, 2 per testarlo sugli animali e 3 per testarlo sull’uomo: insomma, non se ne parla prima di un 5-6 anni”. Il professore precisa che purtroppo questo molte persone non lo sanno (“il 22% degli italiani crede che il vaccino esista già: è per questo che molti non si proteggono più”) e che è quindi opportuno non diffondere false speranze.
“Senza contare – conclude – che questi anticorpi potrebbero non sopravvivere, una volta iniettati, all’interno delle mucose vaginali o del sangue. Si tratta di fattori che vanno ancora tutti verificati”. Resta però il fatto che questi tre anticorpi hanno effettivamente la capacità di colpire le varianti comuni ad alcuni ceppi virali dell’Hiv, che sono in tutto cinque, e questa secondo l’esperto è senz’altro una buona notizia. Repubblica.it
I tre anticorpi, chiamati VRC01, VRC02, VRC03, non hanno tutti la stessa efficacia: solo i primi due riescono a contrastare il 91% dei ceppi di Hiv-1, mentre il terzo ne contrasta il 57%. Tutti e tre sono stati isolati nel sangue di una persona infettata dal virus ma secondo i ricercatori sono presenti in quello di molti altri pazienti. Il segreto dell'efficacia dei due anticorpi più potenti, VRC01 e VRC02, è in un nuovo dispositivo molecolare usato da queste due proteine.
Analizzando la struttura dell'anticorpo VRC01 mentre era legata al virus, un altro gruppo di ricerca coordinato da Tongqing Zhou sempre del Nih ha anche scoperto che l'anticorpo riesce a neutralizzare il 91% dei ceppi di Hiv perché attacca un’area del virus comune a tutti questi ceppi.
"Queste scoperte rappresentano importanti passi in avanti per la ricerca e ci aiuteranno ad accelerare gli studi per prevenire l'Hiv su scala globale" ha osservato Anthony Fauci, direttore dell'Istituto di allergie e malattie infettive del Nih. "Inoltre - ha aggiunto - la tecnica usata dai ricercatori per identificare questi nuovi anticorpi costituisce una nuova strategia che potrebbe essere applicata per la progettazione di vaccini per molte altre malattie infettive".
“Si tratta di una scoperta importante – spiega il professor Fernando Aiuti, docente di Medicina interna e professore emerito della Sapienza Università di Roma – perché sono stati identificati tre nuovi anticorpi: questo studio è la conseguenza di una ricerca sul virus dell’Hiv che va avanti da 15 anni. Ma da qui a parlare di vaccino la strada è lunga”.
Aiuti spiega che un conto è parlare di blocco neutrale e un altro è parlare di guarigione. Il fatto che il virus possa essere bloccato in vitro non significa che poi si riesca a trovare un vaccino. “E poi, anche se fosse – continua – ci vorrebbe 1 anno per prepararlo, 2 per testarlo sugli animali e 3 per testarlo sull’uomo: insomma, non se ne parla prima di un 5-6 anni”. Il professore precisa che purtroppo questo molte persone non lo sanno (“il 22% degli italiani crede che il vaccino esista già: è per questo che molti non si proteggono più”) e che è quindi opportuno non diffondere false speranze.
“Senza contare – conclude – che questi anticorpi potrebbero non sopravvivere, una volta iniettati, all’interno delle mucose vaginali o del sangue. Si tratta di fattori che vanno ancora tutti verificati”. Resta però il fatto che questi tre anticorpi hanno effettivamente la capacità di colpire le varianti comuni ad alcuni ceppi virali dell’Hiv, che sono in tutto cinque, e questa secondo l’esperto è senz’altro una buona notizia. Repubblica.it
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TECNOLOGIA MEDICA: Il robot-spia naviga nell'intestino e ora potrà anche portare le cure
In arrivo la nuova generazione di video-capsule per endoscopia, compresa l"Ikea" che si ingoia in pezzi e si assembla nello stomaco. Saranno telecomandate, avranno "arti" per il prelievo di tessuti e strumenti per rilasciare il farmaco nelle parti malate. L'annuncio dalla Scuola superiore Sant'Anna di Pisa
di MARIARITA MONTEBELLIUna videocapsula endoscopica
C’eravamo appena abituati all’idea di essere operati da un robot telecomandato da un chirurgo, seduto alla consolle in un’altra stanza. Avevamo da poco digerito l’idea di rivelare i nostri segreti più ‘viscerali’ a una video-capsula che, ingoiata come una pillola, filma tutto il panorama lungo il suo viaggio attraverso l’intestino per poi consegnarlo ai chirurghi. Una vera e propria endoscopia senza tubi, capace di arrivare anche nei tratti irrangiungibili dell’intestino. Ma i ricercatori non si accontentano mai.
Ed ecco l’annuncio su Scientific American 1, ad opera di Paolo Dario e Arianna Menciassi, professori di robotica biomedica presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, dell’arrivo prossimo venturo delle videocapsule di nuova generazione, con tanto di ‘zampe’, zoom e strumenti vari, guidate da telecomando wifi. Studiati per ora negli animali, i minirobot potrebbero essere presto pronti per le applicazioni umane. Il vantaggio, rispetto al transito ‘passivo’ della videocapsula, è che possono essere guidati fino a esplorare esattamente le aree che interessano il medico. Un po’ come quelle sonde inviate su Marte a raccogliere campioni di terreno, questi robottini ‘da interni’ potrebbero essere usati anche per prelevare frammenti di intestino malato, aiutando così i medici a scovare i tumori più nascosti e a dare un nome alle infiammazioni più misteriose. Ma anche essere inviati in missione di soccorso, ad esempio per rilasciare farmaci cura-ulcera o per tamponare emorragie.
Ma se la fantasia fa presto a volare lontano, la realtà si scontra con una serie di ostacoli che richiedono miracoli di tecnologia avanzata, da contenere in un aggeggio non più grande di un pesciolino di liquirizia. In particolare, le immagini inviate dal robot devono essere molto fedeli e trasmesse ad alta velocità, praticamente in tempo reale. Naturalmente poi le ‘batterie’ dei mini-robot devono durare almeno le 12 ore necessarie a completare il viaggio al centro dell’intestino, illuminandone anche gli angoli più reconditi, e assicurare l’energia necessaria a far muovere le minuscole 'zampette' per i tanti compiti che il ‘grande fratello’ chirurgo gli chiede di eseguire dall’esterno.
Non basta. Si è già a un passo dall’ultima frontiera, il robot ‘IKEA’, quello in grado di auto-assemblarsi all’interno del corpo. L’idea è quella di far inghiottire al paziente 10-15 capsule, ognuna delle quale contiene un componente miniaturizzato (es. videocamera, pinzette per biopsie, mini-bisturi, mini-cucitrici) con un paio di magneti alle estremità. Una volta all’interno dello stomaco, ben riempito d’acqua, i componenti vengono assemblati nella configurazione desiderata, guidati dalla forza invisibile di campi magnetici applicati dall’esterno, per poi procedere a veri e propri interventi chirurgici robotizzati e miniaturizzati, senza bisogno di fare neppure un buco nella pancia. Una volta completata la procedura chirurgica, il ‘braccio’ meccanico può essere smontato ed espulso a pezzetti dall’intestino.
Traguardi di una fantascienza ormai a portata di sala operatoria, grazie al lavoro di 18 gruppi di ricerca europei consorziati con il coreano Intelligent Microsystem Center (IMC), che rappresentano la risposta europea alla videocapsula ‘passiva’ israeliana, utilizzata nella pratica clinica da un decennio. Lo stesso Paolo Dario, dell'Univeristà di Pisa, ha inventato negli anni ’90 il primo robot da colonscopia dotato di auto-propulsore ed ha condotto studi pionieristici sulle video capsule robotiche wireless, in collaborazione con altri ricercatori europei e con i coreani di Microsystems Center. Arianna Menciassi è invece specializzata nella microingegneria applicata alle terapie minimamente invasive e in nanotecnologia medica. Ai ricercatori del Sant’Anna di Pisa è stato tra l’altro affidato il coordinamento scientifico e tecnico del progetto internazionale Vector (Versatile endoscopic capsule for gastrointestinal tumOr recognition and therapy). Repubblica.it
Ed ecco l’annuncio su Scientific American 1, ad opera di Paolo Dario e Arianna Menciassi, professori di robotica biomedica presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, dell’arrivo prossimo venturo delle videocapsule di nuova generazione, con tanto di ‘zampe’, zoom e strumenti vari, guidate da telecomando wifi. Studiati per ora negli animali, i minirobot potrebbero essere presto pronti per le applicazioni umane. Il vantaggio, rispetto al transito ‘passivo’ della videocapsula, è che possono essere guidati fino a esplorare esattamente le aree che interessano il medico. Un po’ come quelle sonde inviate su Marte a raccogliere campioni di terreno, questi robottini ‘da interni’ potrebbero essere usati anche per prelevare frammenti di intestino malato, aiutando così i medici a scovare i tumori più nascosti e a dare un nome alle infiammazioni più misteriose. Ma anche essere inviati in missione di soccorso, ad esempio per rilasciare farmaci cura-ulcera o per tamponare emorragie.
Ma se la fantasia fa presto a volare lontano, la realtà si scontra con una serie di ostacoli che richiedono miracoli di tecnologia avanzata, da contenere in un aggeggio non più grande di un pesciolino di liquirizia. In particolare, le immagini inviate dal robot devono essere molto fedeli e trasmesse ad alta velocità, praticamente in tempo reale. Naturalmente poi le ‘batterie’ dei mini-robot devono durare almeno le 12 ore necessarie a completare il viaggio al centro dell’intestino, illuminandone anche gli angoli più reconditi, e assicurare l’energia necessaria a far muovere le minuscole 'zampette' per i tanti compiti che il ‘grande fratello’ chirurgo gli chiede di eseguire dall’esterno.
Non basta. Si è già a un passo dall’ultima frontiera, il robot ‘IKEA’, quello in grado di auto-assemblarsi all’interno del corpo. L’idea è quella di far inghiottire al paziente 10-15 capsule, ognuna delle quale contiene un componente miniaturizzato (es. videocamera, pinzette per biopsie, mini-bisturi, mini-cucitrici) con un paio di magneti alle estremità. Una volta all’interno dello stomaco, ben riempito d’acqua, i componenti vengono assemblati nella configurazione desiderata, guidati dalla forza invisibile di campi magnetici applicati dall’esterno, per poi procedere a veri e propri interventi chirurgici robotizzati e miniaturizzati, senza bisogno di fare neppure un buco nella pancia. Una volta completata la procedura chirurgica, il ‘braccio’ meccanico può essere smontato ed espulso a pezzetti dall’intestino.
Traguardi di una fantascienza ormai a portata di sala operatoria, grazie al lavoro di 18 gruppi di ricerca europei consorziati con il coreano Intelligent Microsystem Center (IMC), che rappresentano la risposta europea alla videocapsula ‘passiva’ israeliana, utilizzata nella pratica clinica da un decennio. Lo stesso Paolo Dario, dell'Univeristà di Pisa, ha inventato negli anni ’90 il primo robot da colonscopia dotato di auto-propulsore ed ha condotto studi pionieristici sulle video capsule robotiche wireless, in collaborazione con altri ricercatori europei e con i coreani di Microsystems Center. Arianna Menciassi è invece specializzata nella microingegneria applicata alle terapie minimamente invasive e in nanotecnologia medica. Ai ricercatori del Sant’Anna di Pisa è stato tra l’altro affidato il coordinamento scientifico e tecnico del progetto internazionale Vector (Versatile endoscopic capsule for gastrointestinal tumOr recognition and therapy). Repubblica.it
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Tumori al colon, una scoperta italiana "Ecco la molecola che diffonde le metastasi"
La semaforina E3 è responsabile delle degenerazioni in alcune forme di cancro. Bloccandola si può evitare che la malattia si allarghi, ma il cammino verso il farmaco è ancora lungo. Lo studio dei ricercatori di Candiolo condotto per ora su cavie da laboratorio
di ADELE SARNOROMA - Si chiama semaforina E3 ed è una molecola che regola la produzione di metastasi nel melanoma e nel tumore al colon retto. La scoperta è in uno studio di un team dell'Istituto per la ricerca e la cura del cancro di Candiolo, in provincia di Torino. "La semaforina agisce proprio come una chiave, una volta inserita nella serratura apre la porta alle metastasi. Bloccandola si può evitare che il cancro si diffonda nell'organismo", spiega il professor Luca Tamagnone, autore della ricerca pubblicata sul Journal of Clinical Investigation.
La scoperta di questa famiglia di molecole rappresenta un passo in avanti nella cura della malattia. Le semaforine, infatti, regolano il movimento delle cellule, anche quelle 'anomale', e sono molto abbondanti nei tumori invasivi che formano metastasi. E la E3, in particolare, ha dimostrato di essere un ottimo indicatore.
Il trial clinico è ancora lontano. Per adesso l'esperimento è stato condotto in laboratorio su cavie. "Abbiamo osservato - spiega Tamagnone - che negli animali con melanoma e tumore del colon retto la semaforina, se presente in grandi quantità, agiva proprio come un segnale di via alla formazione delle metastasi. Bloccandola con un'altra semaforina modificata, anch'essa ricreata in laboratorio, il tumore smette di diffondersi e di contagiare altri organi". Va detto però che questo 'bloccante', così come è, ha molti difetti: non può funzionare nell'uomo, è molto difficile da produrre e non è stabile.
Nonstante ciò, Luca Tamagnone si dichiara soddisfatto: "Abbiamo scoperto uno dei meccanismi che innesca le metastasi e ne abbiamo inibito la funzionalità - dice - anche se siamo consapevoli che la strada per arrivare all'esperimento vero e proprio è ancora lunga. Dobbiamo trovare infatti un modo per testare la molecola anche nei pazienti". Insomma, per adesso i ricercatori hanno individuato il meccanismo ma perché i malati possano usufruire di farmaci mirati bisogna ancora aspettare.
Nello stesso numero della rivista è pubblicato un altro studio dell'istituto di Candiolo, che è finanziato dalla fondazione piemontese per la ricerca sul Cancro e dall'università di Torino. I ricercatori guidati da Alberto Bardelli hanno scoperto che l'Everolimus, un farmaco finora usato solo nel carcinoma del rene, è efficace anche in quelli del colon retto che presentano una particolare variante genetica.
La scoperta di questa famiglia di molecole rappresenta un passo in avanti nella cura della malattia. Le semaforine, infatti, regolano il movimento delle cellule, anche quelle 'anomale', e sono molto abbondanti nei tumori invasivi che formano metastasi. E la E3, in particolare, ha dimostrato di essere un ottimo indicatore.
Il trial clinico è ancora lontano. Per adesso l'esperimento è stato condotto in laboratorio su cavie. "Abbiamo osservato - spiega Tamagnone - che negli animali con melanoma e tumore del colon retto la semaforina, se presente in grandi quantità, agiva proprio come un segnale di via alla formazione delle metastasi. Bloccandola con un'altra semaforina modificata, anch'essa ricreata in laboratorio, il tumore smette di diffondersi e di contagiare altri organi". Va detto però che questo 'bloccante', così come è, ha molti difetti: non può funzionare nell'uomo, è molto difficile da produrre e non è stabile.
Nonstante ciò, Luca Tamagnone si dichiara soddisfatto: "Abbiamo scoperto uno dei meccanismi che innesca le metastasi e ne abbiamo inibito la funzionalità - dice - anche se siamo consapevoli che la strada per arrivare all'esperimento vero e proprio è ancora lunga. Dobbiamo trovare infatti un modo per testare la molecola anche nei pazienti". Insomma, per adesso i ricercatori hanno individuato il meccanismo ma perché i malati possano usufruire di farmaci mirati bisogna ancora aspettare.
Nello stesso numero della rivista è pubblicato un altro studio dell'istituto di Candiolo, che è finanziato dalla fondazione piemontese per la ricerca sul Cancro e dall'università di Torino. I ricercatori guidati da Alberto Bardelli hanno scoperto che l'Everolimus, un farmaco finora usato solo nel carcinoma del rene, è efficace anche in quelli del colon retto che presentano una particolare variante genetica.
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Lavoro, no alla musica di sottofondo "Riduce le prestazioni intellettuali"
Gli studiosi dell'università di Cardiff ribaltano una consolidata certezza. I test effettuati con la colonna sonora ottengono sempre risultati inferiori rispetto a quelli svolti in ambiente silenzioso. E non conta la qualità e il gradimento dei brani
ROMA - Sarà pure una piacevole abitudine, ma la musica di sottofondo - classica, rock, jazz o soul che sia - non favorisce le prestazioni lavorative perché riduce la concentrazione e di conseguenza le performance cognitive. E questo a prescindere dal fatto che si tratti o meno della nostra musica preferita.
La tesi è il punto di approdo di uno studio condotto dagli psicologi Nick Perham e Joanne Vizard della University of Wales - Institute Cardiff, pubblicato sulla rivista Applied Cognitive Psychology.
Meglio allora sentire un po' di brani prima di iniziare a lavorare, suggeriscono gli esperti, per poi concentrarsi sui nostri compiti adottando il silenzio come sottofondo.
La ricerca ribalta convinzioni diffuse e sostenute anche da studi scientifici. Per esempio, vari studi hanno dimostrato che la musica classica fa bene al cervello. In particolare, un lavoro diretto da Nicola Mammarella della facoltà di Psicologia dell'università "D'Annunzio" di Chieti, ha dimostrato che l'ascolto di brani musicali, meglio se di Antonio Vivaldi, potenzia la memoria degli anziani. Poi c'è il famoso "effetto Mozart", secondo cui la musica rende più intelligenti. In tempi più recenti, altre ricerche hanno rilevato che la musica sembra migliorare le performance fisiche degli sportivi (alla maratona di New York sono state proibite le cuffiette). Per non parlare dei tanti effetti terapeutici riconosciuti alla musica.
Più di uno studio addirittura l'ha promossa in sala operatoria dove sembra ridurre lo stress dei chirurghi e quindi, di fatto, aiutare il buon esito dell'intervento. Ora, però, la nuova ricerca rimette in discussione tutte queste certezze. I ricercatori gallesi, per arrivare alla loro tesi, hanno sottoposto a test di memoria un gruppo di volontari e chiesto loro di cimentarsi nei test o in un ambiente silenzioso o con il sottofondo della propria musica preferita, o ancora con un sottofondo musicale di brani che non erano di loro gradimento. Infine, i test sono stati eseguiti anche con un sottofondo di suoni non musicali.
In tutti i casi, le prestazioni rispetto ai test sono risultate inferiori se la prova è stata svolta con un sottofondo musicale e indipendentemente dal fatto che si trattasse di brani graditi o sgraditi. Repubblica.it
La tesi è il punto di approdo di uno studio condotto dagli psicologi Nick Perham e Joanne Vizard della University of Wales - Institute Cardiff, pubblicato sulla rivista Applied Cognitive Psychology.
Meglio allora sentire un po' di brani prima di iniziare a lavorare, suggeriscono gli esperti, per poi concentrarsi sui nostri compiti adottando il silenzio come sottofondo.
La ricerca ribalta convinzioni diffuse e sostenute anche da studi scientifici. Per esempio, vari studi hanno dimostrato che la musica classica fa bene al cervello. In particolare, un lavoro diretto da Nicola Mammarella della facoltà di Psicologia dell'università "D'Annunzio" di Chieti, ha dimostrato che l'ascolto di brani musicali, meglio se di Antonio Vivaldi, potenzia la memoria degli anziani. Poi c'è il famoso "effetto Mozart", secondo cui la musica rende più intelligenti. In tempi più recenti, altre ricerche hanno rilevato che la musica sembra migliorare le performance fisiche degli sportivi (alla maratona di New York sono state proibite le cuffiette). Per non parlare dei tanti effetti terapeutici riconosciuti alla musica.
Più di uno studio addirittura l'ha promossa in sala operatoria dove sembra ridurre lo stress dei chirurghi e quindi, di fatto, aiutare il buon esito dell'intervento. Ora, però, la nuova ricerca rimette in discussione tutte queste certezze. I ricercatori gallesi, per arrivare alla loro tesi, hanno sottoposto a test di memoria un gruppo di volontari e chiesto loro di cimentarsi nei test o in un ambiente silenzioso o con il sottofondo della propria musica preferita, o ancora con un sottofondo musicale di brani che non erano di loro gradimento. Infine, i test sono stati eseguiti anche con un sottofondo di suoni non musicali.
In tutti i casi, le prestazioni rispetto ai test sono risultate inferiori se la prova è stata svolta con un sottofondo musicale e indipendentemente dal fatto che si trattasse di brani graditi o sgraditi. Repubblica.it
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Baci e abbracci in culla contro il futuro stress le coccole di mamma fanno adulti più forti
Baci e abbracci in culla contro il futuro stress
le coccole di mamma fanno adulti più forti
L'affetto materno è un'arma fondamentale per divenire adulti capaci di resistere alle tensioni quotidiane, più sicuri di sè, meno ansiosi e ostili. Lo psichiatra: "Il legame inizia già dal ventre materno". Ma attenzione a non adottare stili di vita malsani, potrebbero rovinare tutto
di ADELE SARNOROMA - Tensione, ansia, irritabilità, sbalzi di umore. In una parola stress. Un problema dei nostri tempi, tanto che solo in Italia colpisce sette persone su dieci, almeno secondo un recente studio dell'università La Sapienza di Roma e dell'Associazione italiana contro lo stress. Da tempo la scienza si chiede quale sia il modo migliore per combatterlo. Il Finnish forest research institute di Metla, in Finlandia, sostiene che lo stress si sconfigge con una gita in campagna o in montagna: merito degli ambienti verdi, gli unici in grado di ridurre le tensioni, migliorare l’umore, ridurre la rabbia e l’aggressività, rendendo le persone più felici. Gli effetti positivi si ripercuotono persino sul sistema immunitario: aumenta la quantità e l’attività delle cellule cosiddette natural killer, cioè quelle capaci di uccidere le cellule cancerose. Senza contare i benefici per cuore e muscoli.
Oggi un nuovo studio, pubblicato sul Journal of Epidemiology and Community Health, torna sul tema e tira in ballo la mamma. Secondo i ricercatori, la capacità di resistere allo stress da adulti è legata alla quantità di carezze e di affetto ricevute nei primi mesi di vita. Insomma, le coccole sono un'arma fondamentale per divenire adulti capaci di resistere alle tensioni quotidiane, per essere più sicuri di sè e meno ansiosi e ostili.
Per arrivare a questi risultati Joanna Maselko, della Duke University in North Carolina, ha selezionato 482 bebè e li ha seguiti nella crescita fino all'età di 34 anni. Gli psicologi hanno valutato il grado di affettività e di attaccamento materno quando il piccolo aveva solo otto mesi. Poi, a distanza di anni, con questionari ad hoc, hanno misurato il livello di salute psicologica di questi figli ormai divenuti adulti. Così è emerso che i bambini che hanno ricevuto più affetto da mamma sono adulti sicuri e forti, capaci di vincere gli stress della vita. Tali soggetti mostrano livelli di ansia e ostilità fino a sette punti inferiori a quelli mostrati dai loro coetanei le cui mamme non hanno instaurato coi figli ancora in fasce un legame altrettanto affettuoso. L'affetto materno, dunque, è un'ottima risorsa per crescere pronti ad affrontare la vita.
"Un buon rapporto con la mamma è fondamentale per la crescita di un bambino sano - conferma Claudio Mencacci, psichiatra all’ospedale Fatebenefratelli di Milano - basti pensare che il legame inzia già dal ventre materno. Un atteggiamento dolce e accogliente rende il bambino meno vulnerabile, lo fortifica e lo libera dall'ansia che troppo spesso causa stress". Insomma, ha ragione l'epigenetica: non tutti i caratteri ereditati dai genitori dipendono dal Dna, per questo è importante controllare che la gravidanza avvenga in maniera più serena possibile. "E gli effetti benefici sul bambino non riguardano soltanto la salute psicologica, ma anche quella fisica. Studi molto recenti - dice Mencacci - suggeriscono che un rapporto affettuoso con i genitori nei primi mesi di vita difende il bambino da diabete e dalle allergie".
Va detto però che le coccole di mamma non arrivano dove l'ex bambino, ormai diventato adulto, soccombe a stili di vita malsani. "Oggi riceviamo mille stimoli - dice Mencacci - tutti i giorni siamo destinati ad avere molte più richieste di quelle che possiamo soddisfare. E così, più deboli, abusiamo di fumo e alcool, mangiamo male, soffriamo di disturbi del sonno. Tutti fattori che contribuiscono a stressare il fisico. E così anche se la mamma ce l'ha messa tutta, può vincere la frenesia della quotidianità. E i genitori non sono colpevoli, anzi, hanno il diritto alla fuga".
Oggi un nuovo studio, pubblicato sul Journal of Epidemiology and Community Health, torna sul tema e tira in ballo la mamma. Secondo i ricercatori, la capacità di resistere allo stress da adulti è legata alla quantità di carezze e di affetto ricevute nei primi mesi di vita. Insomma, le coccole sono un'arma fondamentale per divenire adulti capaci di resistere alle tensioni quotidiane, per essere più sicuri di sè e meno ansiosi e ostili.
Per arrivare a questi risultati Joanna Maselko, della Duke University in North Carolina, ha selezionato 482 bebè e li ha seguiti nella crescita fino all'età di 34 anni. Gli psicologi hanno valutato il grado di affettività e di attaccamento materno quando il piccolo aveva solo otto mesi. Poi, a distanza di anni, con questionari ad hoc, hanno misurato il livello di salute psicologica di questi figli ormai divenuti adulti. Così è emerso che i bambini che hanno ricevuto più affetto da mamma sono adulti sicuri e forti, capaci di vincere gli stress della vita. Tali soggetti mostrano livelli di ansia e ostilità fino a sette punti inferiori a quelli mostrati dai loro coetanei le cui mamme non hanno instaurato coi figli ancora in fasce un legame altrettanto affettuoso. L'affetto materno, dunque, è un'ottima risorsa per crescere pronti ad affrontare la vita.
"Un buon rapporto con la mamma è fondamentale per la crescita di un bambino sano - conferma Claudio Mencacci, psichiatra all’ospedale Fatebenefratelli di Milano - basti pensare che il legame inzia già dal ventre materno. Un atteggiamento dolce e accogliente rende il bambino meno vulnerabile, lo fortifica e lo libera dall'ansia che troppo spesso causa stress". Insomma, ha ragione l'epigenetica: non tutti i caratteri ereditati dai genitori dipendono dal Dna, per questo è importante controllare che la gravidanza avvenga in maniera più serena possibile. "E gli effetti benefici sul bambino non riguardano soltanto la salute psicologica, ma anche quella fisica. Studi molto recenti - dice Mencacci - suggeriscono che un rapporto affettuoso con i genitori nei primi mesi di vita difende il bambino da diabete e dalle allergie".
Va detto però che le coccole di mamma non arrivano dove l'ex bambino, ormai diventato adulto, soccombe a stili di vita malsani. "Oggi riceviamo mille stimoli - dice Mencacci - tutti i giorni siamo destinati ad avere molte più richieste di quelle che possiamo soddisfare. E così, più deboli, abusiamo di fumo e alcool, mangiamo male, soffriamo di disturbi del sonno. Tutti fattori che contribuiscono a stressare il fisico. E così anche se la mamma ce l'ha messa tutta, può vincere la frenesia della quotidianità. E i genitori non sono colpevoli, anzi, hanno il diritto alla fuga".
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